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4-Maggio-2009

ALLA SCOPERTA DEL VASTO MONDO DELLE NEUROSCIENZE. INCONTRO CON SCIENZIATI E RICERCATORI DI FAMA INTERNAZIONALE

Prosegue il nostro -reportage- sul convegno dedicato al Nobel Rita Levi MONTALCINI


a cura della Redazione Scientifica di Siaecm

Il vasto arcipelago delle neuroscienze non solo è terreno di cultori della materia ma anche di quanti a vario titolo intendono approfondire i molteplici aspetti delle innumerevoli patologie, sia dal punto di vista della diagnosi che da quello delle terapie. Un ambito di particolare interesse, questo (anche se quasi sempre poco remunerato), che implica la costante ricerca alla quale oggi sempre più giovani vi si dedicano, sia in Italia che all'estero,accomunati da nobili obiettivi come la grande passione per l'attività di ricerca clinica e di base, ma anche per contribuire fattivamente a lenire le sofferenze umane.

Le neuroscienze possono trovare delle applicazioni negli ambiti più disparati, e sempre più insistente è l'esigenza di trovare da esse delle risposte a numerose malattie. Ed è quello che abbiamo cercato di ottenere seguendo da vicino il convegno scientifico sul tema "The Brain in Health and Disease", tenutosi recentemente a Roma in occasione del 100° compleanno del nobel Rita Levi-Montalcini. Ma anche attraverso interviste ad alcuni scienziati di fama internazionale, come lo statunitense e biochimico Stanley Cohen, che nel 1986 ha condiviso il premio nobel per la Medicina con la prof.ssa Rita Levi-Montalcini; l'inglese James Fawcett, l'italiano Ezio Giacobini e lo svedese Anders Bjorklund.

Intervista al prof. Ezio Giacobini, neurofarmacologo e psichiatra, titolare di Cattedra all'University of Geneva Medical School. Dal 1995 lavora nel Dipartimento di Geriatria, della capitale elvetica, sullo sviluppo di metodi diagnostici precoci e sulla terapia farmacologica nella malattia di Alzheimer. La sua relazione al convegno aveva per titolo "Therapy of Alzheimer disease: the future". E' noto che in questa patologia si osserva il deposito cerebrale di una modesta frazione proteica denominata proteina amiloide, che è molto tossica per le cellule nervose. E grazie alla sperimentazione animale oggi si conosce il meccanismo biochimico e genetico di questo accumulo.

Prof. Giacobini, qual è il punto della situazione sulla "riserva cerebrale"?
La riserva cerebrale è un'ipotesi fatta circa vent'anni fa da un neurologo americano. La scoperta è stata fatta a Shanghai, in seguito ad uno studio sulle donne cinesi ultra 65enni, scoprendo che più elevato era il livello di istruzione tanto meno era la frequenza della malattia di Alzheimer. Il ricercatore statunitense è stato il primo a mettere in relazione il nostro grado di educazione e istruzione con l'incidenza di questa malattia. Da qui è iniziata la cosiddetta "riserva cerebrale", basata sull'ipotesi che esiste una riserva nel nostro cervello che ci protegge dall'Alzheimer, non tanto intesa a bloccare la patologia quanto invece a rallentarne l'evoluzione.

Qual é l'età media più colpita e quale la distribuzione geografica?
Non c'è un'età media: fino a 60 anni sono colpiti l'1-2%, a 70 anni il 10%, a 80 anni il 30%, a 90 anni il 40%. E questo in tutto il mondo. La maggior parte dei malati è presente in Asia: la Cina e l'India hanno più malati che tutta l'Europa e gli Stati Uniti. Quindi più senilità, più pazienti. 

Il concetto di povertà può influire sulla manifestazione ed evoluzione della malattia?
Probabilmente no, se però la povertà indica mancanza di cure potrebbe influire ma indirettamente. In effetti se le persone vivono in un Paese dove non hanno accesso alle cure sanitarie, questo incide tanto da accusare più disturbi cerebrali o cerebrovascolari, i quali accellerano la malattia di Alzheimer. 
Quindi, la povertà influisce sulla qualità di vita.

A che punto sono gli studi a livello mondiale?
Ci sono delle differenze sostanziali ma ancora basate sulla interpretazione delle cause della malattia. Tuttavia, va precisato, è molto progredita la diagnosi e assai poco la terapia.

A tutt'oggi come viene curato il paziente con malattia di Alzheimer?
In tutto il mondo viene trattato con terapie farmacologiche e di sostegno alla famiglia, quindi anche di tipo psicosociale.

In quali Paesi è maggiormente presente la malattia?
Non c'é nessuna distribuzione geografica: la presenza della malattia è la stessa sia in Africa che in Svezia, sia in Italia che in Cina, etc.

Come si spiegano le manifestazioni aggressive di alcuni pazienti? C'è una evoluzione particolare che si manifesta a livello cerebrale, oppure vi sono altri meccanismi inspiegabili?
I meccanismi sono inspiegabili; tuttavia va detto che la maggior parte dei pazienti non è aggressiva, e soltanto una parte di questi manifesta aggressività solo per un certo periodo... Va precisato che l'aggressività solitamente è di tipo verbale, materiale se questi pazienti vivono all'interno di una casa di riposo.

Qual è la situazione in Italia?
Direi che è relativamente nella norma rispetto ad altre realtà in quanto si può contare sulla presenza di Centri di Unità di Valutazione Alzheimer (U.V.A.),dove il paziente può rivolgersi e ottenere gratuitamente terapie farmacologiche. Dal punto di vista assistenziale ci sono circa 2 milioni di badanti, ciò nonostante c'è ancora molto da fare perchè molte famiglie sono "lasciate sole a se stesse": l'80% delle spese di un paziente con malattia di Alzheimer sono supportate dalla famiglia.

Quali le prospettive future?
Una terapia più mirata e possibilmente definitiva entro dieci anni... Probabilmente con una vaccinazione.

Scoprire la miglior terapia per la malattia di Parkinson è certamente un obiettivo di tutti i ricercatori. I medicinali sinora a disposizione si sa che agiscono sulle vie dopaminergiche del cervello e hanno dato buoni risultati nel trattamento dei disturbi motori nella M.di P., ma si sa anche che dopo alcuni anni questo effetto tende a diminuire. Attualmente sono in via di sviluppo nuove molecole con l'obiettivo di prolungare l'azione dei medicamenti dopaminergici e nel contempo di frenare la selettiva perdita neurale che è all'origine della malattia.

Intervista al prof. Anders Bjorklund, professore al Wallenberg Neuroscience Center Lund University in Svezia. La sua relazione al convegno aveva per titolo "Toward a Stem Cell Therapy for Parkinson's Disease".


Prof. Bjorklund, a che punto è la ricerca sulle cellule staminali per una eventuale applicazione terapeutica?
Si tratta di una terapia sperimentale. Finora circa 350 pazienti affetti da M. di P. sono stati sottoposti a questo trattamento terapeutico sperimenatle, con cellule non ancora "complete" ricavate da tessuto cerebrale fetale; di conseguenza sono pazienti che hanno ricevuto un estratto di queste cellule da un cervello ancora in via di sviluppo.

Sono pazienti distribuiti nelle varie parti del mondo?
Si. In Europa e negli Stati Uniti.

Quali prospettive future e quali le previsioni possibili?
Le possibilità del futuro prossimo consistono nell'utilizzo delle cellule staminali embrionali. Con la relazione presentata a questo convegno ho inteso focalizzare l'attenzione proprio sul possibile utilizzo di queste cellule, ampiamente condiviso per le terapie.

La ricerca a livello mondiale è improntata su un dialogo comune, oppure ci sono differenze di dialogo e quindi di comprensione fra ricercatori?
Indubbiamente esistono delle controversie sull'utilizzo delle cellule staminali embrionali dal punto di vista etico e morale, soprattutto in alcuni Paesi,ma ciò dipende dalle diverse culture e dai punti di vista altrettanto diversi. Per quanto riguarda la ricerca, vera e propria, gli scienziati sono tutti d'accordo sul fatto che le potenzialità nelle cellule staminali embrionali siano enormi; quindi dobbiamo raggiungere un obiettivo in comune sia dal punto di vista
legale e giuridico che da quello morale. E credo che questo argomento lo si possa sviluppare.

E' quindi possibile un certo ottimismo?
Nell'Unione Europea attualmente è stato avviato un programma per effettuare degli sforzi congiunti tra scienziati europei, affinché si possano sviluppare ulteriormente le potenzialità della terapia con cellule staminali in questi pazienti. La prof.ssa Elena Cattaneo (dell'Università degli Studi di Milano) già l'anno scorso ha partecipato all'avvio di questo programma; e questo è un esempio della grande capacità e dell'interesse che i ricercatori hanno per effettuare tali sforzi e sviluppare ulteriormente l'applicazione delle cellule staminali embrionali per la terapia. Ma ci vorranno ancora degli anni per risolvere alcuni problemi e superare alcune difficoltà. Tuttavia, noi intendiano soprattutto dimostrare che l'utilizzo di questa terapia è sicuro.

E' altrettanto sempre più auspicabile sperare nel fatto che le lesioni del midollo spinale possano appartenere al passato, e che non siano più sinonimo di paralisi, e magari poter programmare il sistema nervoso tanto da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire l'attività muscolare e neuromotoria.

Intervista al prof. James Fawcett, clinico e ricercatore al Cambridge Center for Brain Repair (Gran Bretagna).


Prof. Fawcett, qual è il suo specifico settore di ricerca?
Mi dedico soprattutto allo studio delle affezioni del midolo spinale, con l'obiettivo un giorno di riparare in qualche modo le fibre nervose e poter ridare una migliore vita ai pazienti affetti da queste patologie.

Quali risultati hanno finora prodotto le sue ricerche per il trattamento delle paraplegie?
E' stato trovato un enzima che blocca la rigenerazione delle fibre nervose, proprio per i malati con problemi al midolo spinale.

Quali tipi di lesione e a quali livelli questi pazienti sono oggetto di maggior attenzione per la relativa cura e quindi di un possibile recupero neuromotorio?
Purtroppo non possiamo prevedere che un recupero reale delle lesioni al midollo spinale possa avvenire in brevissimo tempo. Ma molti di questi pazienti hanno delle lesioni al midollo spinale che non coinvolgono tutte le fibre nervose, quindi possiamo agire affinché si recuperi il più possibile la capacità di azione di queste stesse fibre.

Quanto può influire l'età per il paraplegico rispetto al tipo di lesione?
In realtà siamo certi che nel breve sarà possibile far sì che i pazienti con lesioni al midollo spinale possano recuperare sia pur delle modeste funzioni, che consentono loro (quando intubati) di essere staccati dal respiratore, o addirittura recuperare qualche movimento della mano.

In quali casi le cellule staminali possono, o potrebbero, essere utilizzate per la riparazione di una lesione neuromotoria?
Al momento non sono assolutamente sicure perché sappiamo che generano tumori, quindi nel paziente con lesioni al midollo spinale non sono sicure... 
Tuttavia, possiamo prevedere che in breve possono favorire una sia pur modesta rigenerazione delle fibre nervose.

Gli scienziati che hanno meritato il Nobel per la loro Disciplina non passano certo inosservati, e in questo caso l'elenco è veramente lungo. Tra questi, la prof.ssa Rita Levi-Montalcini negli '50 scoprì il fattore di crescita nervoso o Nerve Growth Factor (NGF), il cui ruolo è essenziale nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoariali e simpatiche, che nel 1986 gli valse il nobel per la Medicina e la Fisiologia. Prestigioso riconoscimento condiviso con il biochimico statunitense Stanley Cohen (la cui relazione al convegno aveva per titolo "Origins of Growth Factors: NGF and EGF") che abbiamo intervistato per sapere che cosa è cambiato da allora ad oggi.

Prof. Cohen, cosa è cambiato dalla scoperta del N.G.F., e quindi dal riconoscimento del nobel ad oggi?
Quello che è cambiato è che all'inizio avevamo solo la possibilità figurativamente di spingere un pulsante e di vedere poi quello che sarebbe stato l'effetto. Oggi sappiamo non proprio tutto sugli steps che vanno da un inizio di un'azione alla fine della stessa, ma ad una buona parte. Quindi con questa scoperta è cambiata la nostra conoscenza.

Per il futuro ci sono ancora molte difficoltà da superare in questo campo della ricerca?
Siamo soltanto all'inizio perché la maggior parte delle cose ci è ancora ignota. Ci chiediamo ancora oggi perché siamo qui... Quindi siamo veramente agli albori.

Rispondendo a tutti i giornalisti se tra lui e la prof.ssa Levi-Montalcini ci siano state divergenze di opinioni o di vedute durante la loro collaborazione, il prof. Cohen ha candidamente confidato: "Una cosa straordinaria è che in tutti gli anni della nostra collaborazione non abbiamo mai avuto una discussione (veramente non ne ricordo una), e questo forse è dovuto al fatto che io non conoscevo il suo campo (la Neurobiologia) e lei non conosceva il mio (la Biochimica)".

Sul fatto di essersi interessato a questa ricerca ha dichiarato: "Non so da dove mi sia venuta questa curiosità, ma il segreto per me, da un punto di vista creativo, è stato il piacere della scoperta, della curiosità, di capire e di conoscere e quindi scoprire il perché delle cose... 

Ma da dove arriva la  mia curiosità ancora me lo chiedo. Davvero non lo so!

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Coordinamento editoriale a cura del Dr. Aurelio Cannatà

Immagini:
Per l'immagine di apertura della Professoressa Montalcini,
si ringrazia lo STUDIO CISNETTO - Agrpress-Riccardi

Resto delle Immagini di Ilaria Messina del Coordinamento Nazionale Informatici di Siaecm

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